martedì 24 gennaio 2017

I cahiers de doléances del flat sharing

Buon 2017!

E mi pare giusto celebrare il 24° giorno dell'anno con un nuovo post.

È da un po' che volevo parlare di una cosa banale ma fondamentale: la casa.

A Londra è molto molto molto difficile potersi permettere di vivere da soli, la soluzione che più va per la maggiore è la condivisione. Case spesso vecchie, umide, buie, sovraffollate, dove il padrone di casa non si fa scrupoli a trasformare il soggiorno in un'altra camera. tirare su muri e suddividere spazi, tutto per guadagnare un posto letto in più e infilarci l'ennesimo expat.

Durante il mio primo anno qui sono stata fortunata, ho trovato casa (tramite un losco italiano che millantava di essere una specie di agente immobiliare) presso una famiglia di origine pakistana, papà, mamma e tre figli, che aveva appena tirato su un nuovo piano alla loro villetta a schiera tipicamente inglese, recentemente restaurata. Ergo entro per prima in questo territorio vergine, con la moquette nuova di pacca, primissima inquilina che la famiglia decide di tenersi in casa. Il giorno in cui mi sono installata in casa era l'Eid, festività musulmana, ed era in corso un pranzo di famiglia (e le famiglie pakistane sono estese). Mi pareva di essere in Sognando Beckham, con tutti quegli abiti colorati, gli odori di cibi speziati provenienti dalla cucina, il vociare.

Saltiamo avanti di 12 mesi e più. I padroni di casa sono adorabili, sono diventati una specie di famiglia pure per me, ma sento il bisogno di una certa privacy. Decido di lasciare il nido pakinglese, e mi trasferisco - in realtà poco lontano - in un appartamento trovato tramite una collega, insieme ad altre due ragazze. Diminuire il numero di coinquilini a questo punto è diventato fondamentale, e tre abitanti per una casa mi sembra un buon numero. Le mie coinquiline sono Jessica, al secolo Jaroslawa, slovacca, ed Erika, svedese di origine coreana. Siamo grosso modo coetanee, Jessica è direttrice di un asilo mentre Erika lavora in una caffetteria. Coinquilino extra estemporaneo è il ragazzo di Jessica, un cuoco algerino. L'appartamento fa parte di un blocco denominato close che, come suggerisce il dizionario Cambridge, si tratta di una strada chiusa privata. Ha senso? Non lo so. Diciamo che a me ricorda un po' il concetto nostrano di cortile. Comunque, se ho capito bene queste un tempo erano case popolari, e in effetti sono abbastanza brutte. Accanto al complesso però c'è un campetto da basket, un asilo e un piccolo parco giochi. La popolazione è per lo più di origine caraibica, ma insomma c'è un po' di tutto. Credo che il nostro appartamento sia circondato da una famiglia italiana e una dell'Est Europa. La casa è disposta su due livelli, con la mia stanza e quella di Jess al piano rialzato, insieme al bagno (con la toilette separata), mentre sotto, al livello della strada, c'è il soggiorno che a un certo punto della sua storia è stato convertito in camera di Erika, la cucina abitabile, il bagnetto di Erika e un piccolo cortile posteriore.

È piccola, ma non è quello il problema. Il problema è che è vecchia. I serramenti fanno pietà (fuori dalla finestra c'è del muschio che tenta di farsi strada all'interno), sul soffitto compaiono macchie di muffa che manco la Sindone, ogni volta che apri i rubinetti l'impianto idraulico esige suppliche e preghiere per esprimere un po' di pressione. E non è neanche la casa peggiore che ho visto: almeno qui c'è dignità. Paul, il padrone di casa, tutto sommato non è male, generalmente se hai bisogno è sempre reperibile, e con le ragazze vado d'accordo - con Jessica più di Erika, che vedo più raramente e mi sembra un po' riservata.

Sono qui da pochi mesi, ed ecco il colpo di scena: Jessica è incinta. Lei e il suo ragazzo decidono di trasferirsi in una casa nella famosa zona 12, Hic Sunt Leones, e io ed Erika iniziamo a cercare un nuovo coinquilino. Quanti ne avremo visti, 3 o 4? La selezione è un processo che mi annoia molto, devi fidarti un po' della prima impressione, e qui la prima impressione ha fatto clamorosamente cilecca.

Decidiamo di prendere in casa Joana, portoghese che si è trasferita da poco a Londra e lavora come receptionist in un hotel. È un po' più giovane di noi, ma sembra matura, è tranquilla, chiacchiera volentieri. Per i primi due o tre mesi, tutto bene. Una sera di giugno torno a casa intorno a mezzanotte, e davanti alla porta di ingresso trovo Jo con un'amica. Ciao, ciao, buonanotte. Non ci penso più. Nelle settimane seguenti ogni tanto salta fuori sta amica, ma continuo a non pensarci. Finché un giorno incontro Erika in cucina, che mi dice: "Ma la ragazza di Jo... è una ragazza, vero?" E io: "Aaaaah, vuoi dire... sì, giusto. Comunque sì, è decisamente  una ragazza." "No perché l'altro giorno stavo parlando con Jo e mi ha menzionato il suo ragazzo..." Mah, faccia un po' come vuole. Pochi giorni dopo, in una delle forse ultime occasioni in cui abbiamo avuto una conversazione civile, Jo parla del suo partner che acquista solo un particolare tipo di pane - e io vanifico i suoi sforzi chiedendole: Oh, does she?

Non so quando le cose hanno iniziato a diventare bizzarre e soprattutto imbarazzanti, ma più o meno dal giorno alla notte la tizia smette di parlarci. Quando ci incrociamo in cucina mormora appena un ciao fra i denti, dopodiché il silenzio più impacciato cala. Io sono una che odia il silenzio, ho bisogno di riempirlo anche a costo di fare la figura dell'idiota lasciando andare i commenti più patetici sul tempo e la Brexit... eppure con quella non attacca. Ancora peggio quando sono in cucina entrambe, lei e la sua morosa, ti senti una terza incomoda a casa tua. Ed è una presenza che diventa ingombrante, a un certo punto l'altra praticamente si trasferisce qui, ovviamente senza che nessuno chieda nulla a me ed Erika. Che siamo due fesse, una più buona dell'altra, per andare a denunciare la cosa al padrone di casa. La cosa più ridicola è che per tutto il tempo l'altra rimarrà l'Innominata, dato che nessuna delle due ha avuto l'intelligenza e la decenza di fare le presentazioni. E si susseguono una meschinità dietro l'altra: uso della cucina a ore improponibili della notte senza il minimo riguardo per Erika che dorme lì accanto; coda per l'uso della lavatrice ignorata; turni delle pulizie saltati; avanzi di cibo abbandonati senza riguardo nel lavandino; urla d'amore filtrate da una ridicola parete di cartone (e mi dice Erika che la cosa è ben peggiore dal piano di sotto).

Ma l'oggetto epitome, la pietra dello scandalo, è la carta igienica.
Durante una delle chiacchierate conoscitive, Jo ci chiede se condividiamo le spese. Noi spieghiamo che condividiamo praticamente solo i prodotti per la casa, per il resto ognuno fa da sé. Dal momento che io e lei divideremo il bagno, mi chiede come si fa per la carta igienica. Io dico che con Jess non c'era una regola fissa, si andava a buonsenso, a volte la prendeva lei, a volte io.
Per i primi mesi, grosso modo finché ci parliamo, rimane in vigore una regola non scritta secondo la quale la prendiamo a turno. Succede un giorno che ho preso il rotolo dal bagno e me lo sono portato in camera, dimenticandomi poi di rimetterlo a posto e uscendo di casa. Apriti cielo! Mi arriva via messaggio un pippone sull'immoralità del mio gesto sconsiderato. Da quel momento, ognuno usa la carta igienica sua. Benissimo, se non fosse per il surrealismo di questa qui che si porta avanti e indietro la carta igienica dalla sua camera. La qual cosa mi offende, se devo dire la verità: pensi che io voglia rubarti la tua carta da culo? I rotoli finiti però si guarda bene dal portarseli via. Li lascia tutti lì belli allineati sul davanzale della finestra o sulla mensola dell'ingresso, forse pensando che si gettino da soli, o che ascendano al cielo, non so. Una volta ne ho contati 10. Quando sono partita per le vacanze di Natale ce n'erano due o tre caduti a terra, che erano diventati il simbolo di questa battaglia fra volontà d'acciaio: vediamo se quando torno, fra tre settimane, sono ancora a terra. (Al mio ritorno, erano in effetti spariti. Era stata Erika.)

Durante le vacanze ecco sopraggiungere un altro colpo di scena: arriva un messaggio di Paul per comunicarci che Jo se ne andrà a fine gennaio. Ho fatto letteralmente un salto sulla sedia. Il giorno dopo ricevo un'altra bella notizia, sebbene non pertinente: ho vinto dei biglietti per assistere a uno show televisivo con David Tennant a fine gennaio. Seguono numerosi salti sulla sedia, e questa conversazione con mia mamma:

Io: L'anno inizia proprio bene, quella che se ne va, e i biglietti per il Tennant...
Mamma: Chissà se vi saluta...
Io: Certo che ci saluta, lui è bravissimo, saluta tutti!
Mamma: Io parlavo della coinquilina...

A mia mamma: no, non ci ha salutato. Se n'è andata via oggi senza dire una parola ad Erika, che ha incrociato due minuti prima in cucina, e portandosi via tutte le sue cose, persino il deodorante per il bagno e l'ultimo rotolo quasi finito di carta igienica.

domenica 11 dicembre 2016

I guardiani

Oggi è stata la prima giornata di volontariato al museo!

La location è il museo navale di Greenwich, ed è più di un anno che ci avevo puntato gli occhi addosso.

Pescato a caso fra i musei che cercavano collaboratori volontari, forse fu durante l'estate 2015 che per la prima volta mandai CV e candidatura, e a onor del vero fui subito contattata per il colloquio. Colloquio superato brillantemente, ma poi per lungaggini burocratiche ho aspettato l'estate 2016 per ricontattarli e chiedere di essere riammessa al programma. Il che ha comportato il dover ripresentare la candidatura, rifare il colloquio, fare la giornata di affiancamento, (andare in ferie) e finalmente cominciare come volontaria.

E chi ben comincia, è a metà dell'opera: sono uscita di casa volando, con l'ansia di arrivare in ritardo al mio primo giorno di lavoro, sebbene volontario. Per fortuna raggiungo Greenwich in tempo per il briefing che apre la giornata, e comunque la prima persona che conosco è Sally, che subito mi dice: "Ma sei volontaria, di che ti preoccupi?" Le domande incoraggiati proseguono: "Ma che voglia che hai! Ma chi te lo fa fare? Ma di domenica, poi!" E con questi toni, comincia la giornata. Durante il briefing, che si tiene all'ingresso del museo, mi fanno sapere che per il mio primo turno sono assegnata alla Queen's House, il cuore geografico del complesso museale, il più antico edificio neoclassico inglese, costruito 4 secoli fa - quest'anno cade esattamente il quattrocentenario - e recentemente riaperto al pubblico. Io sono assegnata all'ingresso insieme a Maria, che fa parte dello staff regolare, ovvero non è una volontaria. Le nostre mansioni consistono nell'accogliere i visitatori, indirizzarli verso l'inizio del tour, cercare di vendere le guide, ricordare che l'ingresso è gratuito, ma le offerte sono gradite. L'aiuto più prezioso che offriamo però è indicare dove sono i bagni. True story. Dobbiamo inoltre contare quanti visitatori entrano, dotate di quell'affare che usano gli assistenti di volo.

Il lavoro del... guardiano? assistente? boh, quello, è ritmato da pause e turni. Ogni ambiente del museo è piantonato da un team di quattro persone: tre sono posizionate in diversi punti dell'area, la quarta è il "relief", il sollievo, che copre i colleghi mentre questi vanno in pausa - circa 30 minuti ogni due ore, 40 minuti per il pranzo. Durante tutto il turno siamo tenuti a stare in piedi, quindi la pausa è il momento per far riposare le stanche membra; per questo c'è la saletta ricreativa con tavoli e sedie, una cucina, frigorifero, PC in caso vi mancasse la mail, bagni. La zona dedicata al personale è completata dall'area degli armadietti, spogliatoi, le bacheche per le comunicazioni interne e per la Wall of Dishonour, dove appaiono le foto di chiunque sia persona non grata per il museo: lo staff è tenuto a essere particolarmente solerte in caso queste persone siano individuate, e chiamare la sorveglianza. La sorveglianza sono due massicci signori che stanno rinchiusi in una di quelle salette senza finestre ma piene di schermi: essere ammessa in un posto del genere ha scatenato immediatamente le mie fantasie più thrilleronistiche. Le comunicazioni con la sorveglianza avvengono, Dio voglia il meno possibile, con radio ricetrasmittenti e utilizzando il lessico che si sente usare nei film. Il mio entusiasmo a leggere le istruzioni: alle stelle. A dire il vero però finora ho sentito usare la radio solo per chiamare la signora delle pulizie, anche se in realtà, essendoci un unico canale (il che significa che tutti ricevono le chiacchiere di tutti), devo ammettere che ho intercettato parecchie altre comunicazioni senza intenderne quasi nessuna.

La giornata scorre molto tranquillamente; ci sono alcuni momenti dove i turisti sembrano mettersi d'accordo e arrivare in massa, ma anche in quei casi i nostri compiti sono semplici, e avere a che fare con persone che sono in vacanza o che hanno deciso di passare una giornata di svago al museo è secondo me il punto cruciale: l'atmosfera è rilassata, nessuno ti mette fretta, non esistono deadline a parte la chiusura. Generalmente poi l'inglese medio si ferma volentieri a scambiare due parole, quindi trovo che sia un lavoro abbastanza piacevole, anche se a essere onesta ci sono stati dei momenti di Oddio ma non mi passa più!

Diciamo però che sono lieta di dimenticare le forti emozioni del lunedì-venerdì, muovermi a ritmi più pacati per un giorno ogni due settimane, e soprattutto sfruttare i vantaggi del mestiere. Come visitare gratuitamente le varie mostre della città. O approfittare degli sconti al negozio del museo per fare i regali di Natale. Senza contare che, a mio parere, essere immersi nel Bello fa bene all'anima: nonostante non sia un museo di belle arti, l'ambiente è molto suggestivo, e siamo pur sempre circondati da opere dell'ingegno umano. Voglio dire, sicuramente meglio di Camden un venerdì sera qualunque.

giovedì 10 novembre 2016

Happily ever after, and sober

Quanto tempo che non scrivo!
Nelle ultime settimane sono successe un sacco di piccole cose che meriterebbero di essere raccontate - o forse è il vizio dello scrittore che, come ho letto una volta in una descrizione molto efficace, fa di un cumulo di terriccio una montagna?

Ma non perdiamoci in tali riflessioni fini a sé stesse, ché il tempo è poco e, conoscendomi, le parole da buttare giù sono molte.

Oggi racconto di una giornata che ha avuto luogo ormai un mese fa, in cui si è verificato un evento particolare e ho vissuto un'esperienza tutta nuova: ho partecipato a un matrimonio.

A differenza delle mie compagne dell'odierna avventura, finora sono stata a parecchi matrimoni in vita mia, ma mai a uno inglese. Ed è qui che sta la particolarità.

La sposa è una deliziosa ex collega del mio precedente posto di lavoro, altrimenti noto come Il Posto di Merda. Megan è una delle poche autoctone con cui ho legato qui a Londra; non ci si vede né ci si sente spesso, ma ci si frequenta abbastanza e soprattutto condividiamo un interesse comune - Doctor Who - che ci ha permesso di rimanere in contatto anche quando ho cambiato lavoro. E tuttavia non mi aspettavo che sarei addirittura stata invitata al suo matrimonio!

E invece una sera torno a casa e mi trovo una busta marrone, al cui interno c'era una busta rossa chiusa con un sigillo di ceralacca, al cui interno c'era il mio invito! Che gioia! I matrimoni possono essere un po' un impegno - specie se ricevi l'invito tre settimane prima della data - ma fa piacere essere ricordati per un simile evento, no?

Inizio a pensare alla mise, ai capelli, al trucco, alla logistica; scopro che altre cinque ex colleghe sono invitate, quindi inizia la messaggistica folle per scoprire come ci si veste, cosa si regala, e soprattutto come si raggiungono i luoghi dell'evento. Mica uno solo, eh. La cerimonia, all'1 di un sabato pomeriggio, è nel punto A, nella campagna inglese; il ricevimento, con cena a buffet a partire dalle 7.30 di sera, è nel punto B, ad almeno 15 km più in là. Noi siamo a Londra, ovvero il punto Z, a un'ora di treno dal punto A. Mentre siamo occupate con questioni di tipo spaziale, inizia a farsi strada una domanda che contempla invece i limiti temporali: cosa faremo dalle 2 alle 7.30, a parte recarci al ricevimento?
È solo pochi giorni prima che giunge la conferma dalla sposa: non siamo invitate a tutto il ricevimento, ma praticamente solo alla torta. Cosa che mi è già successa, ma in circostanze estremamente diverse: prima di tutto, erano sempre matrimoni vicino a casa. E, più importante, ero automunita.

Nulla, non ci resta che fare buon viso a cattiva sorte e rassegnarci a passare il tempo in qualche modo. Nel frattempo si fa strada un'altra agghiacciante eventualità: attuali colleghi e conoscenti - per qualche motivo, ho il vizio di coinvolgere nelle mie avventure chiunque mi stia intorno - insinuano che potrebbe non esserci alcol per noi, a parte quello del brindisi. È una possibilità a cui non voglio pensare, per il momento.

Dicevo quindi che mi ritrovo a coinvolgere tutti, come una titanica impresa di gruppo, nella preparazione di questo matrimonio, manco fosse il mio: la collega Francesca viene a farmi il colore ai capelli, la coinquilina Erika si fa cambiare turno per farmi il trucco sabato mattina, la mia manager si informa quotidianamente a che punto sia coi preparativi, l'amica di Maracatù Fernanda mi presta una pochette nera, persino l'estetista iraniana del salone dove vado solitamente si raccomanda che mi diverta e possibilmente che trovi marito. Venerdì volo via dall'ufficio per poter affrontare gli ultimi preparativi, e colleghi con cui mi rivolgo la parola a malapena mi urlano: "Buon divertimento!"

Insomma, le aspettative erano alte per tutti.

Sabato si apre su una giornata fortunatamente decente, fresca ma almeno asciutta. I preparativi vanno come da copione (e non ho menzionato l'agghiacciante scoperta di appena pochi giorni prima: dopo aver studiato la mise in tutti i suoi dettagli, mi ero resa conto con sgomento che le scarpe che intendevo mettere erano in realtà in Italia, ergo ho dovuto ripensare a un nuovo outfit - impresa portata a termine con successo), esco di casa e arrivo in stazione in orario. Mi incontro con le altre ragazze e partiamo alla volta del Surrey. Dov'è il Surrey? Qui:


Dopo un'ora di treno, ci attende ancora una camminata da 20 minuti, che diventano pure 35 se cammini sui trampoli. Io sono stata furba e le scarpe le ho messe solo una volta giunta a destinazione (questo non vuol dire che abbia camminato scalza dalla stazione fino in chiesa, eh), ovvero una di quelle tipiche chiese British gotiche? neogotiche? finto-gotiche? Wikipedia ci viene in aiuto e ci dice che la chiesa in questione risale a metà '800, quindi inseritela voi nella categoria che più vi piace; dicevo, una di quelle tipiche chiese della campagna inglese che da fuori sono tanto pittoresche, ma dentro sono piuttosto spoglie e soprattutto una uguale all'altra. In ogni caso, sono molto curiosa: come ho già detto, sarà il mio primo matrimonio inglese, addirittura di rito anglicano poi. Non ho quindi modo di fare paragoni né di stilare canoni socio-culturali, ma mi pare di capire che i ruoli sono molto più rigidi dei matrimoni italiani. All'ingresso della chiesa ci sono due uscieri che ti indirizzano a due ingressi diversi a seconda che tu sia un invitato dello sposo o della sposa. Tutti vestiti uguali, io pensavo che fossero impiegati clericali, e invece erano invitati anche loro, scelti fra gli amici della coppia.
Poco prima della cerimonia il prete esce e fa le ultime raccomandazioni: spegnete i cellulari, non fate video durante i canti per questioni di copyright (???), rispondete così e cosà quando siete interpellati, non scappate alla fine della cerimonia.
Poco dopo l'1 il coro si accomoda sull'altare e parte la classica musica da matrimonio #1, sulla quale fanno il loro ingresso le otto damigelle, tutte vestite di rosso. Mi viene immediatamente in mente Erika, la mia coinquilina svedese, la quale pochi giorni prima mi aveva raccontato che in Svezia secondo la tradizione se ti vesti di rosso ai matrimoni significa che sei andata a letto con lo sposo.
Segue la sposa, con un semplicissimo abito bianco, accompagnata dalla mamma, una signora forse ancora più raggiante della figlia, anche lei vestita di rosso.

La prima cosa da dire dei matrimoni anglicani: sono corti. Non sono inseriti all'interno della messa come i nostri: cantano un po', leggono un paio di brani, il prete celebra il matrimonio vero e proprio, dice due parole di quella che sarebbe la predica, firma, puoi baciare la sposa, è fatta. Oh, e chiede davvero: Se qualcuno si oppone a questo matrimonio, parli ora ecc. All'inizio della cerimonia, così ci si toglie subito il pensiero. Il nostro prete ha fatto anche una enfatica pausa, tanto per essere ben sicuro. Un vero intrattenitore. Per fortuna nessuno ha detto nulla, e la cerimonia è proseguita. Dicevo, un paio di letture. Realizzo solo ora che non c'è stato alcun brano dal vangelo, ma solo la classica lettura dai Corinzi (dai, anche se non andate a messa da un po', questa sicuramente l'avrete sentita) e un brano molto meno scontato, dal titolo A lovely love story. Una storia d'amore fra due draghi. Giuro. La ragazza che è salita sull'altare a leggere faceva persino le vocine. Sul libretto che ci è stato dato all'ingresso c'è scritto che la storia è adattata da un racconto di tale Edward Monkton. Più tardi a casa ho fatto un po' di ricerca, e ho scoperto che è un brano molto popolare ai matrimoni. Comprendo inoltre il perché di quell'"adattata": la storia originale non parla di draghi, ma di dinosauri. Il fatto che gli sposi siano fan di Game of Thrones potrebbe c'entrare qualcosa con la modifica.

Oltre alle letture, dicevo che abbiamo (hanno) cantato: su questo lato mi sono sembrati un po' più tradizionalisti, con l'esecuzione di inni che boh, noi forse ai tempi del Don Angelo. Un brano però mi ha intrigato, intitolato Lord of the Dance: io subito ho pensato all'omonimo show di danza irlandese, anche se naturalmente, mi sono detta, deve trattarsi solo di un caso. E invece no! Al primo ritornello ho riconosciuto la melodia, è proprio quella dello spettacolo di Michael Flatley! Vi risparmio i risultati delle mie successive ricerche in materia; fatto sta che per tutti i giorni seguenti il motivetto mi era ben piantato in testa. Sto addirittura considerando di iscrivermi a un corso di danze irlandesi.

E per concludere, rimanendo in tema musicale, dopo aver firmato i registri i neosposi lasciano la chiesa sulle note della classica musica da matrimonio #2. A questo punto nasce qualche perplessità, almeno nei cuori di noi povere forestiere - le uniche non inglesi della giornata - circa il da farsi, anche se in realtà sembrano tutti abbastanza confusi, finché una delle damigelle non ci indirizza sul vialetto di ingresso della chiesa che porta all'ingresso principale. I due sposi lo percorreranno passando in mezzo a due file di invitati, i quali lanceranno confettis. Che, fortunatamente, non sono confetti ma coriandoli. Dopo qualche foto di gruppo, accadono in rapida successione due cose: tutta la compagnia si dilegua, e comincia a piovere. A noi non resta che trovare un luogo al chiuso dove passare le successive cinque (5) ore, e ci rechiamo quindi al pub più vicino con la sensazione di essere le uniche a non partecipare a tutta la festa. In realtà nel pub troviamo un altro gruppo di invitati di serie B; io vorrei socializzare, ma le altre non sono molto per la quale, quindi ci mettiamo a un tavolo e facciamo le ghettizzate.

C'è qualcosa che mi affascina nell'attesa, non nell'attesa di qualcosa, ma nell'attesa di fare qualcosa. Non so perché la differenza è importante, forse perché mi fa pensare a quei romanzi in cui la spia X soggiorna all'hotel Y apparentemente ad oziare, mentre in realtà aspetta che arrivi l'agente Z e che la missione inizi. Forse è il fatto di non dover fare altro che lasciar scorrere il tempo. La tempesta che infuria fuori offre anche la consolazione di pensare che tutto sommato non sto completamente sprecando le mie ore, ma dopo una settimana - o tante settimane - di corse frenetiche, di impegni serrati, ora posso semplicemente stare qui a non fare un cazzo. Occasionalmente arrivano da Serena, l'unica di noi invitata a tutto il matrimonio, foto e aggiornamenti sull'andamento della festa. Il lancio del bouquet, il taglio della torta... insomma, più passano le ore e più mi chiedo cosa rimarrà da fare quando sarà per noi l'ora di andare. Che alla fine arriva. Intorno alle 19 chiamiamo un taxi, che ci porta al luogo del ricevimento, in un golf club. Ha pure smesso di piovere.

Il luogo è abbastanza remoto, e il tassista sta perdendo la fede... ma finalmente arriviamo all'ingresso. Dove non c'è nessuno che ci accoglie, ma alla vista di gente elegante capiamo di essere nel posto giusto. Dall'atrio parte un corridoio che a destra porta in una saletta laterale dove intravediamo un TARDIS, un trono di spade, maschere, mantelli e bacchette magiche. È decisamente il matrimonio giusto. L'altro braccio del corridoio porta al salone principale. Le mie compagne sono talmente intimidite e inesperte di matrimoni (ai quali, ne converrete, bisogna portare anche un po' di faccia da culo) che se non fosse per un invitato casuale che ci spinge verso la festa saremmo ancora lì a decidere cosa fare. Arriviamo giusto in tempo per l'apertura delle danze, una cover stile ballad di 500 miles dei Proclaimers. Nella folla individuiamo Serena, che non ha perso tempo a fare amicizia con gli altri invitati. Noi ci sentiamo un po' fuori luogo, la sensazione è quella di arrivare in ritardo a una festa dove tutti sono già ubriachi. No, non è la sensazione, è esattamente così. La soluzione quindi è quella di bere. È il momento della verità: drink a pagamento o open bar? La suspense è tenace, e si scioglie solo nel momento in cui un'invitata accanto a noi al bancone del bar tira fuori la carta di credito. Le peggiori supposizioni si sono rivelate esatte. A parziale consolazione, Serena ci fa sapere che ogni invitato ha diritto a una birra rossa in onore del padre di Megan, che è venuto a mancare qualche anno fa, il quale amava provare sempre nuove varietà di ale.

Forse dirò una bestialità, ma provate voi a ballare in una sala piena di estranei con il solo aiuto di una birra... Ok, ho detto una bestialità, ma chi mi conosce sa che il ballo non mi viene molto naturale, e una percentuale alcolica più alta avrebbe aiutato. Inoltre gli altri invitati non sono neanche particolarmente socievoli, o per lo meno non nei nostri confronti. Non ci resta che metterci a mangiare, la cena a buffet sta per essere servita. Il tavolo è incredibilmente piccolo, in un angolo della sala, ed è apparecchiato con sandwich, sausage roll, polpa di granchio, involtini primavera, mini quiche e fette della torta nuziale. Appare pure un piccolo TARDIS.

Via, diciamolo: a parte l'ovvia felicità per Megan, che finalmente riusciamo a vedere a un certo punto della serata, confesso che la festa è stata un po' deludente, e penso di poter dire che questa sia stata opinione condivisa di tutta la nostra combriccola. Noi, fiduciose, avevamo prenotato il taxi per il ritorno alle 23.30 - ma no! Facciamo mezzanotte! Come Cenerentola! Ma quando alle 23 si sono accese le luci e gli sposi hanno congedato tutti, ammetto che ho tirato un sospiro di sollievo interiore. Certo, c'era sempre da aspettare il taxi, alle 23.30 scarse eccolo lì all'ingresso, e noi pronte in macchina per tornare a casa. Il viaggio di rientro è abbastanza mesto; dopotutto, è stata una lunga giornata. Forse qualcuno si addormenta anche in macchina. Ci pensa poi il freddo della notte di King's Cross a svegliarci - c'è ancora il tragitto in bus per arrivare a casa. Non è tardissimo, ma fa freschino, in fin dei conti sono vestita leggera per i miei canoni londinesi, e quando arrivo a casa è con immenso piacere che mando all'aria la mise matrimoniale e mi metto a dormire. Sempre con Lord of the Dance in testa. Domani, o fra un mese, sarà il tempo per raccontare la mia giornata.  

lunedì 19 settembre 2016

Il teatro interattivo

È più o meno da quando sono arrivata a Londra che volevo andare al Globe. Il fatto è che sono arrivata a settembre, praticamente alla fine della stagione. Poi è iniziata la vita londinese, una cosa tira l'altra, e prima che te ne accorgi passano due anni e ancora non hai fatto quello che volevi fare.
Ma finalmente, il mese scorso o giù di lì, ho preso il toro per le corna, ho convinto Anna (un'amica che nella sua vita precedente era insegnante di lingua e letterature inglese, quindi non è stato molto complicato convincerla), e in quattro e quattr'otto abbiamo preso i biglietti. Macbeth. Che non è la mia opera preferita, ma è pur sempre Shakespeare.

La più grande incognita di qualsiasi attività all'aria aperta di questa città, ovviamente, è il meteo. Oddio non sarà troppo tardi andare a settembre? E se fa freddo? E se piove? Eh sì perché il Globe è tipo il Pantheon, ma con un buco molto più grosso sul soffitto:



Come ogni scrittore che si rispetti - credo - mi faccio le domande e mi do anche le risposte.
E la risposta è: se in questa città vuoi aspettare il bel tempo per fare cose e vedere gente, allora campa cavallo. Ergo scegliamo un giorno strategicamente posto a metà settimana, AKA mercoledì, equidistante da altre esperienze galvanizzanti mirate a rompere la monotonia casa-lavoro-lavoro-casa, e prenotiamo.

Io invito tutti ad approcciarsi al sito del Globe Theatre e giocare un po' con il modulo per acquistare i biglietti online. Quando scegli il titolo, non ci sono solo i banali Mr., Mrs. e Ms. Io per l'occasione sono diventata addirittura Contessa. Alla Royal Opera House sono ancora più esosi - ecco chi si aspettano di ricevere:



Che poi me li vedo William e Kate che prenotano online i biglietti per assistere a uno spettacolo in piedi a ridosso del palco. Perché, come dice Anna, se vuoi fare l'esperienza del Globe, la devi fare in piedi. E noi infatti abbiamo preso i biglietti in piedi, alla modica cifra di 5 pippi.

Miracolosamente, usciamo dal lavoro in orario - chi più, chi meno - e alle 7 siamo pronte a varcare i cancelli del Globe, posto sulla riva sud del Tamigi, altrimenti e localmente nota come Southbank. Aprono quindi le porte della "sala" (o ha più senso chiamarla arena? ché quello mi ricorda) e mi fiondo dentro senza aspettare nessuno, con un entusiasmo che mi ricorda quel 23 maggio 1995, all'apertura dei cancelli dell'Aquatica per il concerto dei Bon Jovi.

E qui si finisce anche in una postazione migliore, praticamente a pogare sotto il palco, accanto a una scaletta laterale che gli attori usano per accedere alla scena. Eccolo qui, il Globe:


C'è ancora una buona luce, e l'ho detto che la giornata è incredibilmente e fortunatamente bella? Non si vede una nuvola. Siamo pronti per cominciare, e cominciamo con un telo che si solleva per mostrare le 4 (?) streghe di Macbeth, che agitano arti mozzati e altri attrezzi di scena. Una delle streghe ha il braccio tagliato all'altezza del gomito, e io passo tutta la prima scena a cercare di capire come hanno ottenuto l'effetto. È solo quando l'attrice torna sul palco in seguito che mi rendo conto che non c'è nessun trucco, è proprio il suo braccio. Più tardi, nel corso della serata, la cosa sarà anche oggetto di una gag.

Il bello degli inglesi e del loro rapporto col teatro è che non hanno paura di smontare i mostri sacri, anche il più sacro di tutti. Le streghe sovrannumerarie non è la sola libertà che si sono presi nella serata: per il palco circola un Macbeth Jr. che, se non ricordo male, non è figlio dell'opera originale; fanno in tempo anche a fare una battuta sul nome di quell'altro diavolo - Donald Trump. Soprattutto, giocano col pubblico tanto da renderlo un altro attore in scena, e mi immagino che è così che doveva essere 400 anni fa. La prima cosa che fa Banquo al suo ingresso in scena è svuotare una borraccia in platea (d'altra parte Macbeth recita in maniera tanto enfatica che non è possibile non concentrarsi sullo sputo a catinelle, e noi sotto il palco ci sentiamo costantemente minacciati dal maltempo). Un membro del pubblico è invitato a dire la sua sugli avvenimenti, un altro viene chiamato in soccorso di un'attrice imprigionata in un sacco, tutti siamo esortati ad alzare grida di guerra prima della battaglia finale. Generalmente non mi interessano particolarmente le scene d'azione, e comunque considero tali solo quelle che coinvolgono inseguimenti, esplosioni, tripli carpiati giù da palazzi in fiamme - ah, lo spettatore moderno, quanto è difficile da accontentare... E invece no! Il duello finale fra Macbeth e Macduff è stato galvanizzante, lo ammetto, nonostante la morte avvenga off stage. Lo stesso dicasi per gli effetti speciali, che rendevano tutte le scene con streghe e fantasmi davvero inquietanti; anche merito della musica, eseguita dal vivo da un numero imprecisato di musicisti sistemati su un balconcino sopra il palco.

È così che si sentiva lo spettatore shakespeariano contemporaneo? Non lo so con certezza, ma penso di sì.

lunedì 5 settembre 2016

La vida es un carnaval

Mo non voglio dire, ma lo scorso weekend c'è stato il Carnevale di Notting Hill.
Giustamente, qualcuno mi ha fatto notare: Ma il Carnevale? Adesso?

Sì.

Il Carnevale di Notting Hill, dai. Non ho controllato le fonti, quanto sono pigra?
Onestamente non so se ci andrei se fossi solo parte del pubblico - una bolgia del genere non penso di averla mai vista, si mormora un milione di presenze. Il festival di strada più grande d'Europa, e il secondo carnevale più grande del mondo, pare.

Ed ecco come i residenti si preparano all'evento:


Praticamente un assedio.

Far parte della sfilata e stare nel gruppo offre una certa sicurezza, e i tappi nelle orecchie aiutano a preservare l'udito. Si vedono in giro camion carichi di casse e altoparlanti che con un giro di bassi potrebbero farti saltare le otturazioni. Allineati lungo le strade furgoncini e bancarelle vendono cibo di strada caraibico. Spazzatura si accumula a ogni angolo e l'asfalto diventa di mille colori (non ho capito per quale strana tradizione i partecipanti al carnevale sembrano arrivare dalla Colour Run).

La nostra marcia è iniziata intorno a mezzogiorno di domenica, e abbiamo suonato e camminato più o meno ininterrottamente fino alle 5 del pomeriggio. Non appena siamo partiti, ha iniziato a piovere - fortunatamente eravamo preparati all'evenienza e avevamo equipaggiato le alfaia (ho deciso che si tratta di un sostantivo femminile) con un telo antipioggia, ovvero un sacco della spazzatura attaccato con lo sputo al tamburo. Che ha fatto il suo sporco lavoro. Altro pezzo fondamentale e immancabile del buon percussionista: i cerotti preventivi. O rischi di ritrovarti le mani tutte bucate.

Evidentemente non mi sono equipaggiata abbastanza
Il pomeriggio è passato fra una scrosciatina di pioggia e l'altra, sfilando per le strade di Notting Hill fra una folla quanto mai eterogenea, evitando i camion, gli ubriaconi, le bottiglie rotte.
Detta così sembra una guerra. Ma se siamo tornati qui anche quest'anno (il secondo per me, il quinto per Estrela do Norte), vorrà dire che ne vale la pena. A me basta solo il fatto di far parte di un gruppo e suonare insieme (banda di Vanzago, mi manchi!); ma essere al centro di un evento del genere, con fiumi di energia che scorrono, nel bene e nel male, da e verso di te, è un'esperienza fantastica. Nonostante il peso dell'alfaia, il mal di schiena, di spalle, di braccia, i lividi che lo sa il Signore se spunteranno il giorno dopo sulle gambe, i decibel assassini, le vesciche sulle mani, le scene poco edificanti che diventano sempre più numerose con il passare delle ore (tipo più tardi la sera, il muro del piscio), le scene da apocalisse zombi dell'indomani... Poi incontri un bimbetto alto 60 cm che ti chiede se può fare la foto con te e se può provare a suonare il tamburo, una ragazza in sedia a rotelle che balla lungo la sfilata, una sciura settantenne seduta ai margini della strada che si unisce al nostro canto, i ballerini più o meno (o molto meno) professionisti che volevano prendersi una pausa, ma poi iniziamo a suonare e loro ricominciano a ballare.

Siamo finiti anche in TV

È come essere in un quadro di Bosch, scegliete voi se Il Giardino delle delizie o Il Giudizio universale. Impressione che si fa sempre più forte quando la nostra parte è finita, la sfilata si è conclusa, e dobbiamo ritornare al punto di partenza, attraversando la bolgia. Io ho avuto l'idea infelice, pensando che prima di ripartire avremmo avuto un attimo di tregua, di prendere un baslotto (come chiamate quei contenitori di polistirolo per il take away?) di ackee and saltfish, ovvero baccalà e ackee, un frutto tropicale di cui ignoro il nome italiano, ammesso che esista. Dicevo, baslotto in mano, Sam (il maestro... vi ho mai parlato di Sam? Mi sa di no) ci dà l'ordine di partire. Non mi resta che lasciar andare un sospiro rassegnato, cedere la mia alfaia Anastacia - ogni strumento ha un nome proprio - a un gentile collega, e per non fare proprio una figura meschina io trasporto un(a?) gongue, ovvero la cosa che ha in mano il signore nella foto di sotto


In pratica è una massiccia e pesantissima arma da difesa, o almeno io così l'ho usata per poter tagliare la folla. Hyeronimus Bosch, ricordate? La densità per metro quadro è uguale a quella sulla Northern Line la mattina alle 8.00. Ora non siamo più protetti dal nostro status di musicisti, siamo solo dei disgraziati che alla spicciolata cercano di tornare al VIA portando con sé bagagli molto ingombranti. Io ho anche il baslotto. Ogni tanto, quando la folla si dirada un po' - tipo stazione Cadorna alle 7.30 - Sam si ferma e si assicura che ci siamo tutti. A ogni sosta io ne approfitto per mangiare un po' della mia cena. Finalmente, Sam prende una decisione: "Rimettiamoci a suonare, è il modo più veloce e sicuro per arrivare alla meta." L'idea piace a tutti, e in formazione piuttosto sgangherata riprendiamo a suonare. Come Mosè davanti al Mar Rosso, vediamo che effettivamente la folla si apre per farci passare. Avessero avuto dei tamburi, i Guerrieri della notte avrebbero avuto vita molto più facile.

Per fortuna non eravamo così lontani dal nostro furgone. Una volta lì, non so da chi o come sia partita l'iniziativa, ma qualcuno riprende a suonare. O forse non abbiamo mai smesso, non ricordo. Il fatto è che proprio lì, ai margini della festa, sotto un cavalcavia, riparte il ritmo in un movimento circolare. La Regina e un re succedaneo entrano nel cerchio e si mettono a ballare. Chi sta venendo via dal Carnevale si ferma e riprende a ballare e cantare. Si raccoglie una folla di una cinquantina di persone, forse di più. È una festa nella festa e dopo la festa. La gente ci chiede di continuare a suonare. Lì accanto ci sono due poliziotti morti di noia il cui compito è bloccare l'accesso a una stradina laterale. Uno è seduto in macchina, l'altro appoggiato alla transenna si sporge per seguire lo spettacolo. Quando finiamo e ci prepariamo per tornare a casa, non la smette più di farci domande, chiama il suo collega, facciamo una foto tutti insieme. Sospetto che il nostro concerto spontaneo sia stato il momento più bello della sua giornata. Sicuramente, per me lo è stato.


mercoledì 24 agosto 2016

Ufficio complicazione affari semplici

Oggi per la terza volta sono andata dall'ottico nel tentativo di ricominciare a utilizzare le lenti a contatto. Scomponiamo l'epopea:

0. Acchiappo un volantino dal ragazzo fuori dal negozio che promette visita gratis. Sotto! Fortunatamente penso bene di entrare a chiedere se posso andare quando mi pare. Ovviamente no. Mi prenotano la visita.

1. Vado a fare la prima visita. CHE SORPRESA, mi dicono che devo cambiare gli occhiali. Però i miei occhi sono giovani e sani, eh (mi hanno fatto anche la foto, a entrambi gli occhi). Un po' secchi, quindi già che ci sono mi prescrivono le gocce. Io spiego che sono lì perché voglio ricominciare a portare le lenti a contatto. Ma allora per questo dobbiamo prendere un altro appuntamento.

2. Nuovo appuntamento dove vogliono capire i perché e i percome voglio mettere le lenti a contatto. E comunque, by the way, guarda che non sostituiscono i nuovi occhiali che ti abbiamo prescritto! Mi ricontrollano gli occhi e ordinano le lenti che fanno per me. Non appena arrivano, posso tornare per provarle. Ti chiamiamo noi.

3. Oggi mi chiamano, sono arrivate le lenti. Vado al negozio in pausa pranzo, e mi abbandonano in una stanzetta dicendo: indossale, poi ti metti in sala d'attesa per una ventina di minuti e vediamo come va.
Ho passato solo venti minuti cercando di indossarle. Alla fine, la sinistra è entrata, la destra si è rifiutata. Io poi speravo che qualcuno si accorgesse della lungaggine dell'operazione, invece nulla. Mi affaccio un paio di volte sperando di intercettare qualcuno, ma è ovvio che sono tutti occupatissimi con la folla di clienti della pausa pranzo. Quando mi manca il mio ottico di fiducia al paesello. Ma tanto.
Finalmente un commesso mi chiede cosa c'è che non va; io, un occhio lentato (e chi porta le lenti sa che a volte ci mette un po' ad andare a posto) e l'altro ciecato, gli spiego che non riesco a mettere la seconda lente.

Allora ti dobbiamo prenotare un appuntamento per imparare a metterle.

Ho capito bene? No, me lo faccio ripetere.

Ho capito bene.

Mi piazzano su una sedia, in attesa di una gentile signorina che venga a fissarmi l'ennesimo appuntamento, Nel frattempo cerco di togliere la lente sinistra, che rischia di perdersi nell'occhio. Inizio a innervosirmi e mi immagino già di dover chiamare in ufficio spiegando che non posso tornare dopo la pausa, devo andare al pronto soccorso a farmi estrarre la lente dall'occhio. Fortunatamente, dopo qualche tentativo, mi sbarazzo del corpo estraneo, ed ecco che arriva la signora per fissarmi il nuovo appuntamento. Le uniche possibilità sono alle 10.45 o alle 16.10, "perché la persona addetta viene solo in quegli slot". Sempre più incredula, prendo appuntamento per un sabato pomeriggio.

La saga continua.

martedì 23 agosto 2016

Post salvavita

Oggi sono andata a fare i vaccini per il Brasile. Ho fatto:

  • antitetanica
  • antitifica
  • antiepatite A
  • antipolio
  • antidifterica
Ora ho le braccia tutte bucate e se mi fanno l'antidoping mi arrestano. Ma mi manca ancora la febbre gialla.

E grazie (si fa per dire) che non esiste ancora un vaccino per la malaria, la dengue e la zika.